Ascoltami, sire, chiunque tu sia: molto invocato ti trovo, fuggendo, fuori dal mare, l’ira di Poseidone. È venerando anche per i numi immortali l’uomo che arriva sperduto, come io ora al tuo fiume, alle ginocchia tue arrivo, dopo tanto soffrire. Abbi pietà, sovrano: io mi dichiaro tuo supplice”. Disse, e quello subito fermò la corrente, trattenne l’ondata, gli fece bonaccia davanti e in salvo l’accolse dentro la foce del fiume
Queste sono le parole che Ulisse rivolge alla divinità che presiede il fiume dell’isola dei Feaci.
Gli chiede aiuto, portandogli enorme rispetto, proprio come se si rivolgesse a un re in carne e ossa. Nella nostra società chiunque, probabilmente, sorriderebbe leggendo questo gesto dell’eroe greco; sorriderebbe con superiorità e tenerezza di fronte all’ingenuità di questi antichi miti. Certo, noi sappiamo che un fiume è un corso d’acqua naturale e non è presieduto da nessun re e spesso gli antichi potevano ritrovarsi troppo vincolati a questo aspetto, ma oggi siamo giunti all’opposto.
È comunque vero che i popoli antichi ebbero un rispetto maggiore e diverso nei confronti della Natura e non la consideravano come una cosa che porta un profitto, ma come un mondo vivente con cui vivere in simbiosi. Nel corso dei secoli molti ci hanno ricordato (inascoltati) questo rispetto, perché «gli animali e piante son vivi effetti di natura; la qual natura non è altro che dio nelle cose» (G. Bruno, Spaccio de la bestia trionfante, Bur, 20107).
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