La crescita economica è stata il solo e unico faro che ha guidato per decenni i Paesi del capitalismo avanzato, l’obiettivo da perseguire con ogni mezzo. Ma il prezzo che si è dovuto pagare è stato altissimo. Ecosistemi distrutti, paesaggi devastati, aree urbane isterilite. Per non parlare dei costi umani. Da un lato del pianeta sono emerse nuove forme di schiavismo, dall’altro lato si sono consolidati modi di vita alienanti.
Da tempo, però, una fetta di mondo ha messo in discussione alcuni idoli dei nostri tempi, a cominciare dal mito della crescita e dalla fede nel Pil.
Il prodotto interno lordo non è un indice di benessere, ce lo hanno spiegato bene alcuni economisti. Eppure sono ancora in molti a considerarlo un totem inviolabile. Dal prossimo autunno, per direttiva comunitaria, il Pil conteggerà anche l’economia illegale: droga, prostituzione e contrabbando. Basterebbe fermarsi a riflettere su questa novità per convincersi che da un maggiore movimento di merci e denaro non si crea necessariamente prosperità.
Forse un tempo, quando si trattava di comprare il frigorifero e la prima automobile, il nesso causale “più ricchezza – più felicità” funzionava.
Oggi non è più così.
C’è una crisi strutturale in questo modello economico. Non si può indurre a comprare merce inutile o a sostituire prodotti che sono ancora in grado di assolvere alle funzioni per cui sono stati progettati solo per incrementare il Pil.
La gran parte dei nostri governanti vorrebbe riavvolgere il nastro della storia; solo in questo modo si può spiegare il motivo per cui continuano a pensare come se fossimo nell’immediato dopoguerra, quando ciò che mancava erano proprio i beni di consumo.
Oggi la gente vuole altro: un ambiente pulito, accesso alle cure, tempo libero e qualità della vita. La triste litania che si alza ogni giorno dall’ennesima indagine Istat o dal comunicato minaccioso di Confindustria o Confcommercio lascia il tempo che trova.
Perché dovremmo continuare a consumare sempre di più? Per tenere in vita il modello dell’Homo oeconomicus, che alla fin fine si è rivelato un uomo ricco di merci ma povero di umanità?
Nella dottrina si assume che l’Homo oeconomicus preferisca sempre il più al meno, in altre parole che non abbia mai abbastanza. Dunque, per soddisfare questo individuo i nostri sistemi economici dovrebbero produrre in continuazione una maggiore quantità di merci. È questa la strada per la felicità?
Sarà davvero difficile invertire la tendenza. Ma ci si può provare. Per esempio ciascuno di noi potrebbe cominciare a guardare con maggiore attenzione a tutto ciò che, per dirla con l’articolo 3 della Costituzione italiana, favorisce “il pieno sviluppo della persona umana”: un buon libro, una passeggiata all’aria aperta, una cena con gli amici, una gita fuori porta con le persone che amiamo, una giornata al museo dietro casa dove magari non abbiamo mai messo piede, la musica di Mozart o Gershwin, la voce della Callas nell’Andrea Chénier.
Forse, e sottolineo tre volte forse, questa è la via per raggiungere lo scopo più alto, quello a cui tutti aneliamo: dare un senso alla vita.
E questo senso, perdonatemi la banalità, non può essere ridotto alla ricerca del denaro. Assicurare per sé e i propri congiunti la tranquillità economica è un obiettivo condiviso, però il vento nocchiero va cercato anche altrove. Soltanto se abbiamo già dentro di noi il vento che soffia sulla vela riusciremo a veleggiare anche quando c’è bonaccia.
Diceva Seneca: “Tu vorresti insegnarmi come conservare i miei beni e la mia condizione, ma io desidererei piuttosto imparare come potrei perderli ed essere ugualmente felice”.
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