Le ultime settimane e gli ultimi mesi hanno visto esplodere una serie ininterrotta di incendi che in breve tempo hanno incenerito intere fette di territorio: piantagioni, villaggi e terre incolte che prima erano verdi e fiorenti sono state ridotte ad un mucchio di ceneri. Nel solo mese di novembre sono state decine di migliaia le persone costrette a lasciare le proprie case per scappare dal fuoco, soprattutto intorno alla città di Haifa, nel Nord. Nonostante non risulti che fino ad oggi siano state emesse condanne contro alcun piromane (sono invece state arrestate delle singole persone in attesa di giudizio), le forze di sicurezza ebraiche sospettano che molti focolai siano stati appiccati per dolo.
«Ogni incendio doloso è l’atto di un terrorista e tale sarà considerato anche chi incita a provocare incendi». ha detto il premier Benyamin Netanyahu, non lasciando dubbi su chi ritenga essere responsabile per tutto ciò: i palestinesi. «Ci sono incendi dovuti a negligenza e altri a volontà” ha poi continuato. “Fronteggiamo un terrorismo dei piromani. Chi cerca di bruciare la terra di Israele sarà punito con la massima durezza». L’esplosione degli incendi è già stata battezzata come intifada dei fuochi” cioè una nuova forma di confronto violento e distruttivo tra due popoli che si contendono lo stesso territorio e lo stesso ambiente.
Quanto sta avvenendo è l’ultimo capitolo di un conflitto, quello arabo-israeliano, che secondo il filosofo Martin Buber è “tra due popoli per la stessa terra”. Questa affermazione permette di capire come sia nella mentalità israeliana che palestinese sia radicato l’amore per la propria terra e il profondo desiderio di vivere dei sui frutti. Prima dell’inizio della massiccia immigrazione ebraica in Palestina, cominciata con la fine dell’800, lo stile di vita maggiormente diffuso nelle popolazioni arabe che la abitavano era legato al mondo agricolo (secondo un censimento inglese di allora 7 palestinesi su 10 erano contadini). Per quanto questi sentissero un forte legame con la propria terra i loro effettivi diritti di proprietà su di essa erano tutt’altro che sicuri, dato che la maggior parte di esse appartenevano a pochi grandi proprietari terrieri.
Il ritorno degli ebrei nella loro ancestrale madrepatria fu a sua volta caratterizzato da una forte riscoperta delle proprie origini. Non fu un caso che i primi arrivati iniziarono ad acquistare dai palestinesi fette di terra sulle quali diedero vita alle proprie comunità e dalle quali partirono i progetti per riunire il popolo ebraico in uno Stato.
Da allora nessuno dei due popoli che si contendono la terra di Israele o della Palestina (nome che cambia a seconda dei punti di vista) ha mai rinunciato al controllo della terra, dell’ambiente e dei suoi prodotti. E anche quando (raramente) vengono deposte le armi e cessano le aperte ostilità il confronto continua sul piano ambientale.
Tempo fa parlavo con un guerrigliero palestinese nato e cresciuto in Siria perché i suoi genitori lasciarono le proprie case in Palestina nel 1948. Di fronte ai drammi del conflitto siriano il suo più grande desiderio è rimasto quello di poter tornare a Giaffa, a vedere la casa in cui vissero i suoi nonni e nacque sua madre. A creargli più dolore, dice, non sono le bombe, non sono gli attentati terroristici e non è la distruzione. «Nella vita non c’è cosa più dolorosa che non avere una patria, un luogo in cui saper di poter tornare e di poter chiamare casa», mi ha detto. A mancargli è soprattutto quella terra che dice appartenere al suo popolo, ma che è rivendicata anche da altri. E che, nel frattempo, brucia.
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