L’allevamento delle tigri per fini commerciali sembra non volersi arrestare. Ancora oggi, in buona parte del continente asiatico, ossa, pelle, vibrisse e cistifellea di tigre sono componenti fondamentali della medicina tradizionale. Una richiesta costante, che toglie la vita a moltissime tigri in natura e che ne costringe altrettante a un’esistenza dietro alle sbarre.
I numeri del fenomeno
Nonostante da più parti sia giunta la richiesta di porre fine a questi allevamenti, l’EIA (Environmental Investigation Agency) stima che, ad oggi, ci siano oltre 200 tiger farm, distribuite soprattutto tra Cina, Laos, Vietnam e Thailandia.
Si calcola che le tigri tenute in cattività per essere poi macellate oscillino tra i 7mila e gli 8mila individui. Numeri enormi, se si considera che le tigri allo stato selvatico in tutta l’Asia sono meno di 4mila.
«La chiusura delle tiger farm potrebbe permettere ai Paesi che ancora ospitano le tigri di raggiungere l’ambizioso obiettivo di raddoppiare il numero di questi animali presenti in natura entro il 2022 – ha spiegato Michael Baltzer, capo del WWF Tigers -. Il processo di chiusura di queste strutture non può però avvenire a danno degli animali che lì sono rinchiusi. Va garantita una buona destinazione e una cura amorevole a tutti gli esemplari oggi maltrattati e sfruttati nelle fattorie, poiché si tratta di esemplari che non possono più essere rilasciati in libertà. Per affrontare questo difficile problema servirebbe la collaborazione e il contributo non solo dei governi coinvolti, ma anche di istituzioni e partner internazionali».
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