Il salmone d’allevamento è uno dei prodotti ittici più largamente consumati. Ma siamo davvero così sicuri che si tratti di un prodotto tanto sicuro e ricco di benefici come viene ampiamente presentato?
Per scoprire cosa si cela dietro a questi allevamenti, Sea Shepeherd ha lanciato una nuova campagna. Con una madrina d’eccezione. L’ex bagnina di Baywatch Pamela Anderson ha prestato il proprio volto all’iniziativa Virus Hunter che indagherà sulle condizioni dell’itticoltura in Canada, dove l’allevamento di salmoni presenta una voce importante dell’export.
«Il settore dell’allevamento del salmone vive in segretezza, nascondendo le sue attività dalla vista del pubblico – ha spiegato la biologa canadese Alexandra Morton -. Il Canada non può affermare di proteggere gli oceani, tra cui il salmone selvatico, mentre allo stesso tempo permette al settore del salmone d’allevamento di scaricare rifiuti sulla più grande rotta migratoria al mondo del salmone. Gli allevamenti di salmone hanno recinti collocati nella acque dell’oceano. In questi i pesci nuotano nelle proprie feci e il proliferare di malattie tipiche della specie, tra cui i pidocchi di mare, uccidono il salmone selvatico, minacciando anche la capacità delle orche di alimentarsi».
Dieci motivi per non mangiare salmone
Sul proprio sito, Alexandra Morton ha elencato anche i 10 motivi per cui bisognerebbe evitare di mangiare salmone d’allevamento. Il decalogo, ripreso anche da Slow food, getta luce sui punti più controversi di questi allevamenti.
Innanzitutto c’è la questione igienica: negli allevamenti i reflui non sono mai lavati via, ma vengono lasciati cadere attraverso le reti. Ne consegue che tonnellate di escrementi si adagiano sul fondale, attorno alle vasche dove i salmoni vengono allevati. In un ambiente tanto insalubre il diffondersi di malattie è all’ordine del giorno: gli agenti patogeni che si sviluppano contaminano la carne che finisce sulle nostre tavole. Gli allevamenti intensivi, inoltre, sono estremamente dannosi per i salmoni selvatici. Il drastico calo della popolazione di questi pesci viene registrato ovunque, nei paraggi, ci siano vasche di allevamento.
Inoltre, questa forma di acquacoltura è tutto fuorché sostenibile: per ottenere un chilo di salmone ne servono almeno 5 di altri pesci, contribuendo così alla riduzione di atri stock ittici. Ma non solo: foche, uccelli e leoni di mare rimangono spesso intrappolati nelle reti che delimitano gli allevamenti.
C’è poi il problema del mangime con cui i salmoni vengono nutriti. Nel 2013 la Norvegia ha ottenuto il consenso da parte dell’Unione Europea per aumentare la quantità nei mangimi di endosulfano, insetticida considerato pericoloso e bandito in molti Paesi. Inoltre, il mangime dato a questi pesci contiene derivati animali, soprattutto dai maiali. Alla luce di questo, il salmone affumicato è un prodotto considerato kosher o halal, vale a dire prodotto idoneo ad essere consumato secondo le regole alimentari della religione ebraica e islamica.
Sempre in Norvegia, alcuni medici hanno consigliato alle donne incinte di evitare la carne di salmone a causa dell’alto livello di tossine contenute nella carne dei pesci provenienti da allevamenti intensivi.
Nel suo decalogo la Morton punta il dito anche contro la colorazione rosea della carne di salmone, qualità richiesta affinché i pesci di allevamento somiglino, almeno visivamente, a quelli pescati. Per garantire il tipico colore i produttori aggiungono ai mangimi coloranti artificiali come il Salmofan, che consente di ottenere sfumature di rosa differenti per assecondare le richieste di mercato.
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