Quand’è che siamo diventati così? Quand’è che il cibo ha smesso di essere, non dico semplice nutrimento, ma genuina tradizione, occasione di festa e convivialità? Va bene che siamo il Paese della buona tavola e la nostra cucina è apprezzata un po’ in tutto il mondo, ma questa mania del cibo (scriverei food, se solo fossi alla moda) ha qualcosa di patologico ormai.
Il cibo non è più un’occasione per fare conversazione, è diventato esso stesso la conversazione. Se volete pavoneggiarvi in società, oggi mica dovete dire di essere provetti velisti o artisti visionari. No, ciò che conta davvero è friggere, spadellare e impiattare. E i guru di questi anni non si chiamano più Andy Warhol o Allen Ginsberg, ma Oscar Farinetti e Carlo Petrini. Il primo, dopo avere fondato Unieuro, la catena di centri commerciali che forse più di ogni altra ha spinto l’acceleratore sui consumi illimitati e superflui e sulla fabbrica dell’uomo perennemente indebitato, ha poi inventato quella straordinaria macchina per far soldi che si chiama Eataly. I suoi negozi, nati a Torino e ora presenti a Roma, Firenze, Genova, Milano, New York, Chicago, Tokio, sono assurti a simbolo dell’Italia che piace. Sono considerati luoghi di culto, dove non ci si limita a comprare acciughe e caciotta, ma si vive un’esperienza, ci si istruisce, si studiano le nostre radici.
Carlo Petrini, invece, nel 1986 ha creato Slow Food, il cui nome è in evidente opposizione alla filosofia del fast food. Sorto in Piemonte, fra Bra, Alba e Barolo, in una zona celebre per i vini di altissima qualità e per un tartufo bianco che, giustamente, tutti ci invidiano, questo movimento si è affermato non solo in Italia, ma anche in Paesi stranieri che non hanno la nostra cultura culinaria. Slow Food ha intercettato esigenze profonde che attraversano l’intero mondo globalizzato: contrastare la frenesia contemporanea, riappropriarsi di ritmi che ci consentono di godere dei piaceri semplici, riscoprire il gusto della socialità intorno alla tavola, provare odori e sapori che avevamo dimenticato. Sono esigenze totalmente condivisibili, da qui il successo. Il problema è che dal momento in cui Slow Food ha smesso di essere solo una corrente di pensiero ed è diventato un marchio, tutto è cambiato ed ha cominciato a seguire le stesse dinamiche che Petrini biasima.
È anche grazie a questo movimento se oggi il cibo, pardon, il food, è diventato il motore di un gigantesco indotto che mette insieme produttori, ristoratori, rivenditori, ma anche critici gastronomici, televisione, pubblicitari, organizzatori di eventi e compagnia cantante. E come un gregge di pecore, noi tutti ci sentiamo cuochi, anzi, chef. Bravi o meno poco importa, quel che conta è mettersi ai fornelli e mischiare ingredienti, naturalmente di qualità; qualcosa verrà fuori.
Un grande, immenso carrozzone, che va da Slow Food a Gamberorosso, passando per Eataly, i cuochi mediatici e arriva fino a zia Adelina, che ora vuole mettere in tavola solo lardo di Colonnata, pistacchio di Bronte e melanzana rossa di Rotonda.
Quand’è che siamo diventati così? Quand’è che tutti abbiamo cominciato a impiattare, fotografare pietanze, parlare di ristoranti stellati e ossequiare la boria degli chef?
Ho un sogno. Sedermi a tavola con amici e discutere di un mondo dove tutti hanno da mangiare, non ci sono obesi né anoressici, i contadini ricevono il giusto prezzo per ciò che producono.
E nessuno parla di food.
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